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PER I GENITORI
ARTICOLO PUBBLICATO SUL N° 4  DI "A TUTTO CAMPO"
LA VISIONE DEI GENITORI



La visione del genitore è nettamente all’opposto di quella del mister: ogni papà (o mamma) vorrebbe che il proprio figlio segnasse gol a valanga e che giocasse sempre e comunque. Quel che è peggio è che invece di portare al campo il figlio per socializzare, per farlo crescere con gli altri, per farlo divertire o semplicemente per fargli praticare dello sport, lo carica di responsabilità, lo disprezza se non riesce o lo esalta se lo vede fare certe cose, dimenticando che si tratta pur sempre di un bambino.  Spesso il proprio figlio è vissuto come un “prolungamento di se stessi” e rappresenta la propria RIVINCITA sulla vita. Si proiettano su di lui desideri insoddisfatti e sogni non realizzati, creandogli false e sbagliate aspettative. Se per esempio questi in mezzo al campo subisce un fallo, si reagisce violentemente contro l’autore perché è come se quel fallo lo avesse subito lo stesso genitore, ovvero la parte di se stesso a cui si tiene di più, quella proiettata sul figlio. Il genitore così vive tutte le esperienze del proprio figlio (anche per esempio quelle negative come la panchina o l’esclusione dalle convocazioni) come se fosse lui a farle, interpretando le sue sconfitte come se fosse lui il perdente, esaltandosi invece anche eccessivamente se il figlio vince. Questo atteggiamento è captato dal bambino, molto sensibile agli stati d’animo del genitore ed al modo in cui egli si comporta o parla con lui. Quindi se dopo aver perso una partita il piccolo vede il genitore abbattuto, silenzioso e critico, oppure dopo una vittoria lo vede euforico come se avesse portato a casa la Coppa del Mondo, l’idea che si fa è che sia accettato da lui solamente se vincente. Ciò può portare il bambino ad un errato approccio alla partita, affrontando la stessa solo con l’obiettivo di non perdere, per evitare la delusione e l’insoddisfazione del proprio genitore.

Il genitore, “attaccato alla rete”, che si intrufola nello spogliatoio con una scusa banale, che segue passo passo il proprio figlio, che urla quello che deve o non deve fare in campo, che magari poi a casa gli fa “ripetizioni calcistiche”  vorrebbe solo un protagonista in campo: il proprio bambino. E allora mentre tu sudi le proverbiali sette camicie per insegnargli a passare la palla ai compagni, lui si giustifica così: “ha detto mio padre che devo andare da solo dritto in porta…” “ha detto mio padre che devo giocare attaccante” “ha detto mia madre che i rigori li devo tirare io”…Ecco il nocciolo della questione: bisognerebbe astenersi dal suggerire ai propri figli i propri punti di vista, di esprimere giudizi sui compagni di gioco, di interferire nelle scelte tecniche, di esprimere giudizi sul nostro operato, anche perché gli istruttori cercano di sviluppare le potenzialità del bambino, intese non solo come capacità tecniche ma anche, come sottolineavo prima, come capacità di socializzazione in un gruppo. Il genitore non si rende conto che istruttore rappresenta per il proprio figlio una figura di riferimento importante, che il bambino tende ad idealizzare e che le critiche al tecnico possono disorientarlo. L’istruttore di scuola calcio ha un ruolo ben diverso da quello del tecnico delle squadre che si seguono in televisione, in quanto egli è prima di tutto un educatore. Non ci si può, quindi, limitare a valutare il suo operato esclusivamente dal numero delle vittorie e dalle sconfitte raccolte, ma bisogna predisporsi a valutare sotto un’ottica diversa il suo lavoro. Molto spesso, il genitore è concentrato esclusivamente sul risultato (inteso come vittoria, sconfitta, pareggio) mentre non coglie aspetti particolari quali la corretta esecuzione di un gesto fondamentale come, per esempio, effettuare uno stop di petto o colpire la palla di esterno: questi sono i veri risultati. E allora…lasciamoli giocare e divertirsi, perché, a quest’età, ne hanno tutto il diritto.



L'ANSIA DEL SUPERFIGLIO

 
ARTICOLO PUBBLICATO SUL N° 12 DI "A TUTTO CAMPO"







SI RINGRAZIA IL DIRETTORE EDITORIALE GINO MAZZEI PER LA GENTILE CONCESSIONE


Impariamo ad accettare i limiti dei nostri bambini

L’ANSIA DEL SUPERFIGLIO

SONO TROPPE LE PRETESE CHE VENGONO DAI GENITORI
E IL RISCHIO E’ DI RITROVARSELI GRANDI PIENI DI PROBLEMI


“Impariamo ad accettare i limiti dei nostri bambini. Essi non sono nati per soddisfare il nostro orgoglio o per compensare le nostre frustrazioni”. Si apre con questa frase un articolo recentemente pubblicato dal settimanale PANORAMA che trattava dettagliatamente tutte le problematiche che oggi investono genitori e bambini.

La cosa, precisiamolo subito, non riguarda solo il mondo del calcio, ma è estesa a tutto quello che è il rapporto tra i bambini che crescono e i loro genitori. La frase con la quale abbiamo aperto questo articolo non fa parte di un manuale pedagogia, ma è stampata nero su bianco su un manifesto che campeggia sulle tribune di 400 piscine d’Italia. Un’idea della Federazione Italiana Nuoto, per cercare di “educare” quella massa di adulti che non pensano altro a scalmanarsi per le gesta sportive del figlio.

Il fenomeno è così a 360° gradi ed esce fuori dal mondo del calcio e dello sport in generale. “E’ la sindrome del piccolo campione”, viene scritto in questo articolo. La “moda” dilaga in tutta Italia, da Nord a Sud. E’ il sogno del figlio perfetto, anzi del superfiglio. “In un paese dove si fanno sempre meno figli, quei pochi diventano preziosi” è il commento di un demografo dell’infanzia.

Le statistiche del resto parlano chiaro: su poco più di 14 milioni di coppie in Italia, il 45% di esse ha solo un figlio, circa 42 % arriva massimo a due. Cosa succede quindi ? Che dall’unico figlio ci si aspetta tutto. Gli si dà tutto, ma gli si chiede anche tutto.

E non devono essere solamente bravi a scuola, ma devono suonare la chitarra o il pianoforte, parlare le lingue e... giocare bene a calcio.. Secondo l’ultimo Rapporto Nazionale sull’Infanzia, il 20% dei bambini italiani tra i 7 e gli 11 anni dice di non avere un solo istante di tempo libero nella loro giornata.

Si fanno crescere i nostri bambini con dei luoghi comuni ormai assodati tipo: “se tuo figlio non inizia da piccolo a parlare inglese ne farai un minorato” oppure “se non prende subito in mano un computer poi non imparerà ad usarlo.”
I genitori non riescono ad essere neutrali. Portano il loro figlio a fare sport e non riescono a stare al loro posto. Se l’allenatore non fa giocare il proprio bambino nel tal ruolo, piantano delle grane alla società, condizionano con i loro atteggiamenti la crescita sociale del bambino. Ecco il fenomeno dei genitori “ultrà”


Sempre su PANORAMA, ecco il pensiero di Ezio Vendrame, calciatore fuori dalle righe negli anni ‘70, oggi allenatore di settore giovanile in Veneto. Quello che dice deve far riflettere. “Siamo tutti vittime di genitori convinti di aver creato tanti Maradona - dice -. Per loro, l’unica cosa che conta è vincere. Così fai fatica a spiegare ai ragazzi che perdere una partita non è la fine del mondo, che non si può star male per questo.”
Il sogno di Vendrame (ah, ci risiamo...) era “allenare una squadra di orfani”. Tre anni fa ha dettato la spugna, “A un provino a Pordenone mi è capito persino un padre che mi offrì 5 milioni di lire purchè gli prendessi in squadra il figlio.”
A Roma, un maestro di judo ha deciso di allenare a porte chiuse i bambini a 6 ai 13 anni. Ai genitori è consentito l’ingresso solo nell'ultimo quarto d’ora perchè possano rendersi conto dei progressi della prole. Dice il maestro: “Il dramma è l’irrealizzato che proietta sui figli tutta la propria ansia di successo. Tempo fa ho dovuto mandare via due bambini deliziosi, un maschietto di 8 anni e la sorellina di 12, perchè il padre, uno dei miei primi allievi tanti anni fa, accompagnava i figli alle gare e cominciava a urlare: “Dai massacralo, uccidilo.”

E’ cambiato il modello educativo: il piccolo selvaggio da domare, è stato soppiantato dal piccolo genio che nasce buono e dotato e va solo aiutato ad avere successo da genitori che diventano i sindacalisti del figlio.
Questa ricerca della perfezione non è indolore. Cresce il disagio per i figli che non riescono a sopportare tante pressione: difficoltà nel sonno, problemi con il cibo e di apprendimento. Emergono anche nuovi disturbi. Come la deglutizione atipica che ha subito un boom: dall’1 al 35% dei casi. Sono i bambini che tengono il ciuccio o il dito in bocca fino a 5-6- anni con l’effetto di modificare il palato. E ci sono anche quelli che non riescono a fare a meno del biberon fino a 9 anni. Sentite cosa ha detto la psicoanalista e psicoterapeuta dell’Istituto di ortofonologia di Roma, specializzato nell’assistere i minorenni. “C’è una grande enfasi sulla prestazione. A due anni usano il telecomando, a tre giocano con il computer, alla scuola materna hanno già il telefonino a tasto unico per chiamare la mamma. Ma a nove anni dormono ancora nel lettone con i genitori. Reagiscono, insomma, rallentando o arrestando lo sviluppo su altri piani”. Un indizio: in cinque ani è raddoppiato il numero di bambini che, pur crescendo, continuano ad adottare un linguaggio infantile.

La paura dello scacco, del fallimento è l’altra faccia del superfiglio. Analizza il neuropsichiatra infantile Gabriel Levi: “Oggi convivono due modelli. I genitori, da un lato, vogliono il figlio superiuscito. Dall’altro, non vogliono che soffra. E’ come se gli dicessero contemporaneamente: vinci tutte le battaglie, ma non ti frustrare.”

E allora il pericolo è dietro l’angolo. Una recente indagine della Consulta regionale della F.I.G.C. ha evidenziato come ci sia una sorta di imbuto tra il numero di praticanti che va dalla categoria Esordienti a quella Allievi.



“Una grande tipologia dei tossicodipendenti - segnala Guglielmo Masci, direttore dell’Agenzia per le tossicodipendenze del Comune di Roma - è quella dei traumatici: erano bravissimi, super, capaci di tutto e, alla prima mazzata, crollano. E per reggere l’immagine grandiosa di sè ricorrono alle sostanze. La cocaina, prima di tutto.”



Qualcuno, più semplicemente, si ritira in casa, nel suo bozzolo, rinunciando alle sfide. Sono sempre di più i casi di adolescenti che a 14-15 anni si ritirano dal mondo.



Il vero dramma del superfiglio è così di crescere. E per i genitori di lasciarlo andare. Si iniziano a cedere casi anche di genitori che accompagnano i figli a fare esami all’università. Un tempo questo era impensabile.



Precise ricerche segnalano che i giovani italiani ritardano sempre di più l’uscita dalla famiglia oltre la soglia dei trent’anni. Così, nell'ansia di tirar su un bambino perfetto, i genitori si torturano nella preoccupazione di non esserne capaci. E finiscono con l’essere insoddisfatti di sè e scontenti del figlio.



Con meno ansie, è il succo, si vive meglio.







 
 
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